Motion graphics temine a dir poco intrigante: è quello che in inglese si usa per definire il design grafico per il cinema e per la televisione, termine che pone immediatamente l’accento sulla mobilità dell’immagine, sulla dinamicità della grafica non piu’ statica.
Un tema piuttosto “alla moda” nella comunità internazionale dei visual designer, dopo casi eclatanti come la brand identity della giapponese Asahi TV affidata ai designer avant-garde inglesi di Tomato o l’esplosione del fenomeno Kyle Cooper, autore che ha firmato una serie di piccoli capolavori nel confezionare le sigle di apertura di alcuni capolavori del mondo del cinema come Seven (con R/Greenberg Associates, 1995) o Spiderman2 (2004).
Abbiamo casi in cui:
“Un nuovo simbolo, disegnato per il network Cbs e che sarà utilizzato come identificativo del network durante le pause pubblicitarie, verrà presentato sabato 20 ottobre e promosso dalle maggiori star televisive della Cbs durante tutte le interruzioni sabato e domenica.”
Con questo comunicato stampa emesso dalla Columbia Broadcasting System nell’ottobre del 1951 il matrimonio fra grafica e televisione è consumato.
La Cbs annuncia orgogliosamente la nascita del nuovo marchio, realizzato da William Golden, allora Creative Director dell’Advertising and Sales Promotion Department interno: un occhio stilizzato che resisterà praticamente intatto fino ai giorni nostri, diventando l’elemento centrale di un complesso sistema di identità visiva.
Quanto questo fosse importante lo si capisce chiaramente un decennio dopo: nel 1962 la ABC, con CBS e NBC nella triade delle storiche televisioni commerciali e generaliste Usa, chiama un protagonista assoluto della graphic design a realizzare il proprio marchio. Si tratta di Paul Rand, che nel 1956 aveva messo in cantiere marchio e immagine coordinata per la IBM, una collaborazione destinata a finire negli annali.
Anche in Italia si verificano eventi simili. Dopo aver realizzato nel 1949 il marchio della RAI, Erberto Carboni , uno dei grandi maestri della grafica italiana, ne progetta nel 1953 il marchio televisivo, e la sigla di apertura delle trasmissioni. La sua collaborazione con l’ente di Stato si estende a manifesti, scenografie, stand, e continua fino a pochi anni dalla sua morte, nel 1984.
Nel 1979 è sua la sigla di apertura per la neonata RAI3. Le sigle però non sono solo quelle istituzionali, ovvero relative all’identità dell’emittente. Le sigle vivono anche sui programmi, effettivo oggetto di consumo da parte dei telespettatori e ancora una volta è la televisione statunitense, dominata da una competizione commerciale sin dalla fine degli anni 30, a tracciare la via.
Per esempio i titoli di testa della prima serie di Bonanza (1959) sono attribuiti a Saul Bass, il grande autore di sigle cinematografiche scomparso nel 1996. Designer preferito da registi come Otto Preminger, Alfred Hitchcock e Martin Scorsese, Bass firma per loro, fra le decine di titoli, film di culto come “L’uomo dal braccio d’oro”, “La donna che visse due volte” e “Cape Fear”.
In Italia, comincia nel 1958 la collaborazione di Mario Sasso con la RAI, pittore e grafico, darà vita alla sua prima sigla nel 1960 seguita da una serie lunga di altri lavori che comprende anche l’impostazione grafica di RAI2, negli anni ’80. D’altra parte dal decennio precedente la Rai coinvolge altri progettisti di rilievo, come Sergio Salaroli, Ettore Vitale, Alfredo De Santis, in sigle di programmi quali “I grandi comici”, “Bunuel”, “Una vetrina per sette registi”. Viene chiamato in causa anche Roberto Sambonet, già celebre nel design di prodotto. Nel frattempo, lo scenario radiotelevisivo è mutato. Fra i lasciti dell’ala creativa del movimento del Settantasette ci sono le radio libere, che da strumenti di controinformazione si trasformano ben presto in imprese commerciali destinate sino ad oggi a intaccare la leadership della radiofonia pubblica.
Negli anni ’80 anche l’etere televisivo italiano si apre ai nuovi soggetti privati: le televisioni commerciali.
La moltiplicazione delle reti obbliga a trovare un proprio pubblico, destinargli uno specifico palinsesto, e creare una griglia di riferimenti che permetta di identificare immediatamente il canale su cui si è sintonizzati.
Questa griglia è data dalla videografica, ovvero quella serie di elementi visivi che sempre di più individuano l’emittente e programmi che si stanno guardando. Grazie all’accelerazione tecnologica si avranno opportunità produttive, che offriranno un diverso rapporto con il pubblico. Basta un telecomando per costruirsi un proprio palinsesto personale; oggi con la televisione digitale interattiva si va ben oltre. Così il marchiare l’emittente diventa una “opportunità necessaria”.
La luminosa ormai elemento canonico, saranno i bumper istituzionali a definire l’immagine di rete, da un punto di vista visivo che sonoro, con brevissimi motivi musicali appositamente creati. “Bumper”, ovvero paraurti: con il solito pragmatismo, l’inglese individua così quello strato che divide le trasmissioni dalle fasce pubblicitarie; compito svolto parallelamente anche dai ” diari “, le cornici entro le quali si racchiude lo sponsor del programma e dai promo, ovvero gli spot pubblicitari dei programmi medesimi.
Oggi non facciamo più caso alla presenza della “luminosa” e neanche c’interroghiamo sulle sigle che incorniciano i vari programmi; sui bumper; sui promo e tanto meno ci stupiamo (sempre se ce ne accorgiamo) delle modificazioni e evoluzioni che questi elementi subiscono nel tempo; dell’affiancarsi di nuove soluzioni e di nuovi format; della codifica che le immagini legate alle singole reti impongono loro.
Questo non è da vedersi come un aspetto negativo, anzi è un elemento positivo che queste presenze grafiche non si impongano ai contenuti che accompagnano. Possiamo usare come riferimento per spiegare questo aspetto la “teoria delle protesi”: una protesi è funzionale se non ci si accorge di portarla, se non mi accorgo di indossare gli occhiali, significa che questi si adattano perfettamente al mio viso. Così, un artefatto (fatto ad arte, nell’etimologia) di grafica deve essere inteso come elemento di servizio e presentare i contenuti che porta, senza sovrapporsi a essi, d’altra parte, esso deve far sì che l’utente comprenda immediatamente cosa gli si sta presentando.
Ecco perché in realtà un discorso sulla videografica è indubbiamente un discorso sulla televisione, diventando anche discorso sulla comunicazione d’impresa; sulle tipologie di pubblico che compongono l’utenza, sulla loro cultura e le loro inclinazioni, sulle evoluzioni del gusto all’interno della nostra società.
A questo punto cambiare di un marchio nella luminosa diventa indicativo di un’evoluzione dell’immagine di rete; ma anche di un mutato rapporto con il pubblico e le sue affezioni ed è per questo che la sigla di un prodotto di fiction deve fare riferimento all’immaginario storico, cul-turale, letterario cui questa fa riferimento; e ancora l’immagine di un telegiornale muta al variare del rapporto fra utenti e informazione, in un’era in cui quest’ultima si fa sempre più massiccia, rapida e incalzante.
Sembra strano pensare che tutti questi concetti, progetti, pensieri sono racchiusi negli spazi minuscoli e nei tempi ristrettissimi offerti dalla televisione ed è proprio per questo che la prima responsabilità della videografica è quella di rendere riconoscibili le cose che comunica, questo vale sia per l’identità delle reti e sia per l’immagine dei programmi, le sigle e i marchi. In poco tempo e poco spazio bisogna dire e far comprendere che cosa è il programma: individuare la tematica, raccontare l’atmosfera, enfatizzare il punto di vista affinchè il telespettatore non si confonda; nasce un vero proprio linguaggio che dialoga con generi e sottogeneri della programmazione televisiva.
Pur non avendo nel campo delle immagini un linguaggio codificato come quello espresso dalla scrittura, dove ci sono grammatiche, ortografie, sintassi, cose che si apprendono a scuola, e dalle quali non si deroga; esiste un linguaggio per immagini, chiaro e condiviso, anche se non così legato a delle regole o norme, perlomeno in senso globale. Questo si può vederlo nei nostri semafori e dalle nostre segnaletiche stradali dove la codifica è data dal rosso che è segnale di pericolo, accompagnato dal giallo: sono due colori caldi, che eccitano il nostro apparato percettivo. I segnali di indicazione e di permesso sono invece blu e verdi: colori freddi, che tranquillizzano. Il rosso è tuttavia anche sulla Ferrari e sulle Ducati perché prima che le auto e le moto fossero coperte di sponsor, ogni nazione aveva il suo colore e a noi è toccato rosso, simbolo di aggressività e di dinamismo e giustamente è rimaste con noi nel tempo. Ancora parlando di codifica possiamo pensare alla forma dei nostri marchi che nel settore bancario sono spesso quadrati proprio per simboleggiare la solidità che quella forma evoca e che per una banca è concetto sicuramente importante da comunicare; oppure abbiamo il cerchio come forma autonoma, indipendente, divina; e ancora, individuiamo nel triangolo la matrice della freccia che ci fa cambiare strada in auto, o aprire un link ipertestuale in rete.
Sempre i nostri marchi ci raccontano di immagini che storicamente portano con sé valori simbolici come il leone e l’aquila per la forza e il coraggio e se vediamo una signora bendata nella pubblicità di una lotteria, sappiamo bene che identifica la fortuna, iconografia dell’arte classica greca e romana. Quindi una grammatica per immagini esiste e serve proprio a dare le giuste informazioni, comprese quelle di registro emotivo, a coloro ai quali le immagini sono rivolte. Anche le parole diventano immagini come avviene nel lettering, che sulla base delle specificità di caratteri tipografici ci dà il tono del messaggio ed in questo caso i caratteri occidentali di maggiore tradizione sono i Romani o Latini, che nascono dalle iscrizioni dell’epoca classica incise nel marmo.
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